Tango in campo minato, le prime 40 pagine

Prologo

Pensiero rifugio

“Impiccarmi no, macabro spettacolo per chi mi dovesse ritrovare: la pelle cianotica e il collo spezzato, il dolore scolpito nel volto con la bocca deformata dalla ricerca d’aria. Il nodo scorsoio, poi, non lo so fare. Spararmi non se ne parla, troppo cruento e non saprei come procurarmi una pistola. Lanciarmi nel vuoto nemmeno: il volo sarebbe un’interessante ultima esperienza, ma l’atterraggio renderebbe raccapricciante il mio cadavere e pure difficile la vestizione per la cassa da morto. Voglio invece che mi trovino intatta, possibilmente bella; se mi sono sfracellata al suolo al massimo posso sembrare una marmellata di frutti rossi.

La copertina

La copertina

L’ideale è la morte stoica: taglio netto su polsi, braccia, caviglie e interno delle ginocchia nella classica vasca da bagno. Un suicidio poetico da antico senatore romano, e poi il rosso carminio è il mio colore. Dicono che il calore dell’acqua faccia sentire meno il dolore del rasoio e agevoli il dissanguamento. Marguerite Yourcenar descrive nei minimi particolari la morte dell’alchimista Zénon1 che nel XVI secolo si svena per evitare di essere arso vivo: dopo la ferita mortale vengono i brividi, la sete, il respiro affannato e infine il buio. Un bel pasto di antidolorifici e tranquillanti insieme e poi nella vasca calda. Certo, devo procurarmi un rasoio o smontare un trilama, per il resto ho tutto. E poi uscirei dalla vasca già pulita, un cadavere pronto per essere asciugato, vestito, infilato nella bara e cremato”.
Per Marilena Salina il suicidio era un pensiero rifugio: “Non ho più paura di niente quando penso che sto per morire”. Un’idea ansiolitica che evocava quando si trovava di fronte a un problema che riteneva al di là delle sue capacità di sopportazione e soluzione. Se non c’era altro modo di sottrarsi all’angoscia restava sempre l’alternativa estrema: morire, fine di ogni problema. Per l’eventualità in cui la volontà di affrontare la vita le fosse venuta meno e avesse prevalso il dolore, conservava quindi il progetto del volontario addio al mondo. Solo che dopo averlo vissuto nella mente in ogni minimo dettaglio, le passava la voglia di ammazzarsi e qualsiasi altra cosa, in confronto al decesso, diventava sopportabile. Così era sempre stato. Ma questa volta c’era qualcosa che rendeva tutto più difficile.
Mentre riempiva la vasca di acqua calda meditando su come smontare un rasoio da uomo per estrarne una singola lama, ripensò a come tutto fosse iniziato solo due mesi prima con un ballo. Un tango dopo il quale la sua vita era diventata un campo minato.

1 Il gioco dei nomi

“Luca se è maschio, Leila se è femmina”.
“Come la principessa di Guerre stellari, sei matta?”
“Mi piacciono i nomi liquidi. Senti come scivolano sulle labbra: Leila, Luca. Qui c’è una leggera asperità nella ‘c’, ma anche l’acqua quando scorre trova impedimenti, inciampa in qualche roccia ma poi l’avvolge e ricomincia a fluire”.
“Luca mi sta bene ma di Leila non se ne parla, non è nome da bambina”.
“Ma la bambina di cui parli un giorno sarà donna e…”
“E non si chiamerà Leila. Che ne dici di Marica?”
“Troppo duro: con la ‘c’ e la ‘r’, non scorre per niente”.
“Questa cosa del nome liquido non l’ho mica capita”.
“Deve essere un nome che canti, come l’acqua che scorre. Deve scivolare dalla lingua alle labbra senza incepparsi con sillabe dure. E poi sono i nomi più facili da pronunciare per i bambini. Sai quanto ci ho impiegato io a presentarmi come Marilena? A te, Milo, è andata bene”.
“Per questo hai abbreviato in Lena?”
“Non l’ho mica abbreviato io: la gente è troppo pigra per pronunciare un nome di media lunghezza per intero. In realtà io odio i diminutivi, per questo preferisco i nomi non suscettibili di abbreviazioni e ulteriori tagli di sillabe”.
“Comunque sappi che ho dei parenti che a furia di diminutivi ormai pronunciano solo la prima sillaba dei nomi e sono riusciti ad applicare la regola pure a un nome corto come il mio”.
“E ti chiamano Mi?”
“A mia sorella Cristina va meglio con la prima sillaba di tre lettere”.
“Io trovo che storpiare i nomi sia un delitto. Le parole che nominano le cose sono importanti, e quelle che nominano le persone lo sono di più. Nel suono che ti identifica c’è un potere e tagliare i nomi significa diminuire quel potere”.
“E io che ti chiamo Mari, credi stia minando il potere del tuo logos?”.
“Hai poco da prendere in giro tu che hai il nome di un cane”.
“Il mio nome ha origine germanica e… maledizione a quel film con lo sgorbietto a quattro zampe e l’imbecille mascherato. Tornando alla creatura: ho capito solo che ti piacciono i nomi corti e con molte elle. Lara?”
“La erre sa troppo di roccia, poca acqua”.
“Peccato, a me piace Carola”.
“Non è male, c’è una erre ma sa di gorgoglio e subito dopo tutto scivola sulla elle”.
“Elisa?”
“Non è male, potrebbe non dispiacermi chiamare Elisa nostra figlia”.
“Allora è deciso: Luca o Elisa”.
“Deciso? Sono solo tre giorni di ritardo. È appena arrivata la primavera e ai cambi di stagione mi capita di avere il ciclo sfasato”.
“L’amore mio lunare tutto sfasato. Va bene, piedi per terra ma… questo gioco dei nomi mi piace proprio. E se abbondassimo e ne mettessimo due? Un bel nome composto tipo Maria Elisa e Gianluca?”
“No, il nome composto no, e poi niente nomi della tradizione ebraico-cristiana, faccio eccezione per Luca perché è il nome dell’evangelista dotto ed è corto e liquido, ma di Maria non se ne parla. E poi avrà già due cognomi”.
“Come due cognomi?”
“Non gli vorrai dare solo il tuo? Sarò io a farlo, o farla. Come minimo porterà il cognome della mamma e speriamo che finalmente approvino la legge che ce lo consenta”.
“Lunare e femminista me la sono trovata. A mio padre verrà un colpo”.
“Il mio invece ne sarebbe felice”.

“Cosa c’è?”
“Una fitta”.
“Già si muove?”
“Non è quel tipo di movimento”.
“E che tipo era?”
“Era più il movimento di un’assenza che di una presenza”.
“Lunare, femminista e criptica”.
“Vado in bagno”.

“Cos’era?”
“Il gioco dei nomi può finire qui”.
Lena terminò la frase prendendo dal suo armadio un pacco di assorbenti e mostrandolo a Milo che era rimasto ad aspettarla a letto visto che si erano entrambi svegliati anzitempo. Lui si sforzò di non mostrarsi deluso, lei tornò in bagno e si accovacciò sul bidè per lavarsi. Il sangue le macchiò le mani di un rosso cupo, fregò le dita una sull’altra sentendone la vischiosità prima che vi scorresse sopra acqua e sapone. Quando il getto divenne caldo fu investita dall’odore di ferro e carne morta. Dopo avere giudicato che fosse passata abbastanza acqua sotto il ponte del suo inguine, afferrò un piccolo asciugamano bianco e se lo passò in mezzo alle gambe. Un alone rosa lo colorò all’istante. Restò a guardarlo ripensando alle tre gocce sulla neve delle quali le avevano raccontato da piccola. Subito dopo neuroni e sinapsi nel suo cervello si organizzarono per riproporle l’immagine di Biancaneve e la sentenza espressa da una docente del corso universitario su Favole ed emancipazione femminile: “Le fiabe rovinano le bambine facendo credere loro di dover aspettare che la salvezza arrivi dal principe azzurro”. Lena tese l’asciugamano contro la luce che proveniva dalla finestra, inclinò la testa indecisa fra ironia e rabbia. Si concesse l’ira e scagliò la spugna contro la porta senza poter smettere di guardare quel binomio di candore e ferita.
Ancora una volta il nido che il mio grembo aveva preparato per accogliere e nutrire una vita è rimasto vuoto ed è marcito. Si sfalda in mille pezzi che colano via dal mio corpo come in un assassinio. Ma nessuno è morto perché mai vita è cominciata. Un altro mese di attesa vana, un altro mese di semina con la speranza della fertilità. Il vecchio nido deve essere espulso per fare posto a una nuova promessa. Promessa sempre tradita finora. Guarda, questo è il sangue che doveva diventare il mio bambino.
Si infilò sotto la doccia per eliminare ogni traccia di maternità fallita e dopo essersi asciugata andò davanti al lavabo sul quale pendeva una specchiera illuminata. Si tolse l’accappatoio e valutò l’immagine riflessa.
Guarda quanto sono bella, guarda questo corpo che non ne genererà un altro. Non nascerà nessuno che mi somigli, che inclini lo sguardo alla Marilena, come diceva nonna, che sospiri con l’aria che si ferma a metà della gola come lo faccio io.
Ma no, la ginecologa era stata chiara: “Non ci sono impedimenti al concepimento, prima o poi succederà”.
L’immagine di sé la rincuorò e la distrasse: le piaceva guardarsi e ricorreva spesso allo specchio, più che per cercarvi conferme a dubbi sul suo apparire, per puro diletto ritenendo la sua bellezza il requisito minimo indispensabile per considerarsi presentabile. Per Lena il suo aspetto esteriore era molto più del mero dato estetico, era fatica e dominio sulla materia: Io ho potere sul mio corpo. Non lascio che sia, lo piego, lo forgio, lo ordino in base a una precisa idea. La mia idea. Le piaceva che il suo sostrato fisico si evolvesse per tendere a una perfezione pur irraggiungibile e aveva costante bisogno di obiettivi da raggiungere: eliminare le smagliature, far sparire la cicatrice sul sopracciglio sinistro, memoria di una varicella adulta, perdere tre o quattro chili.
Era proprio il momento dell’incontro con la bilancia: rito quotidiano capace di dispensare gioie o sensi di colpa. La notte precedente Marilena aveva quasi digiunato quindi la giornata sarebbe cominciata bene. Cinquantaquattro chili tondi, non c’è malaccio su 167 centimetri, pensò mentre beveva direttamente dal rubinetto per spegnere l’arsura notturna. Certo c’è ancora almeno un chilo di troppo sulla pancia e almeno un altro chilo per lato sui fianchi. In compenso la terza di reggiseno è un po’ più piena rispetto alle epoche di magra, e tanto le bastò a fare quadrare i conti del dare e avere lipidico. Lena era solita segnare il suo peso su un’agenda per meglio valutare le evoluzioni sulla bilancia e quel giorno, 27 marzo 2014, segnò pure l’arrivo del ciclo mestruale.
Tornò allo specchio per sottoporre ad attento esame il volume di inopportuni cuscinetti e per verificare che durante la notte non si fosse palesato qualche brufolo molesto. I lineamenti erano regolari, ma il profilo del naso non era proprio perfetto, la pelle era chiara e omogenea ma non di porcellana come le sarebbe piaciuto. I denti erano dritti e bianchi, ma lei non smetteva di usare lo sbiancante a dispetto dei consigli del dentista. Le mani avevano segni e cicatrici che non sapevano nascondere i 37 anni anagrafici come invece sapeva fare il viso in cui le poche rughe erano pronte a essere nascoste da fondotinta e cipria con l’effetto “viso naturale” come da promessa pubblicitaria. Marilena spendeva in cosmesi più di quanto facesse piacere al suo fidanzato. Ma aveva sempre fatto dei suoi soldi quello che voleva e non aveva cominciato a rendere conto a Milo neanche quando era andata a vivere insieme a lui sei anni prima.
Già, sei anni. Era un tempo sufficiente per provocare noia anche fra i più innamorati e così era avvenuto. Legatissimi l’uno all’altra per i primi tre anni, il successivo triennio aveva visto rallentare le spinte sentimentali e non solo quelle. Niente di particolarmente trito, una sana mediocrità con punte di impazienza e di ritrovata, ma occasionale, passione come in tante coppie stabili di lunga data. Di quella routine era più Lena a soffrire e infatti sei mesi prima aveva avviato le “procedure di ritorno alla vita da single”, come lei le chiamava nei suoi racconti confidenziali alla sorella Federica. Ma si era dovuta arrendere di fronte a un’inaspettata proposta di matrimonio.
“Varrebbe la pena sposarsi solo per la luna di miele: 20 giorni filati di ferie quando mai me li danno altrimenti?” Aveva detto ridendo alla sorella. Ma neanche la fotografia mentale di se stessa con l’abito da sposa davanti al sindaco nel candido e monumentale Municipio di Cagliari era riuscita a convincerla. Sul momento aveva chiesto tempo prima di dare una risposta, poi il tempo se lo era tenuto. Milo, per orgoglio o per maggior comodo, non l’aveva sollecitata e tutto era rimasto come prima, con quel “sì” o “no” pendenti mutati in probabilità eterna. Marilena ci ripensava proprio mentre si lavava i denti: Se non avessi ceduto allora, ora spazzolerei la dentatura davanti a un altro specchio, in un’altra casa, in un’altra vita. Ma in realtà Lena amava Milo e, cosa forse più importante per lei, ne aveva enorme stima perché lo riteneva dotato di rara intelligenza, sensibilità e integrità d’animo. Noioso quindi e, dopo sei anni, noioso era stare con lui. Sono felicemente incoerente, pensava Lena riguardo ai suoi sentimenti.
Proprio in quel momento lui reclamò il suo turno alla toilette. Milo usciva di casa prima di lei, ma essendo i suoi tempi una minima frazione dell’ora che Lena impiegava per presentarsi al mondo, poteva alzarsi con comodo ed entrare in bagno esattamente mentre lo specchio rimandava l’immagine di una giovane donna intenta a passarsi il mascara sulle ciglia. Per Lena l’ultima operazione era quella di aprire la cabina armadio e indossare gli abiti pensati durante il restauro mattiniero. Non prima di avere aperto le finestre sul golfo degli Angeli.
Milo era riuscito a comprare la porzione di bifamiliare dove vivevano, in via Vittorio Veneto, per un puro colpo di fortuna proprio cinque anni prima: tre camere, due bagni, cucina, salotto e un imprescindibile ripostiglio. A Cagliari erano in pochi a potersi permettere una villetta nella zona di viale Merello, ma Milo era entrato nelle grazie di un’anziana coppia titolare di un’abitazione piuttosto antica e di una pensione altrettanto inadatta alla contemporaneità. Troppo poche le entrate per fare fronte a lavori di manutenzione e tasse immobiliari. I due erano clienti dello studio legale dove l’avvocato Milo Di Caro lavorava da quando si era laureato in Legge, ed era stato il titolare, l’avvocato Raimondo Pimentel, a suggerire loro di dividere la villa di famiglia ormai troppo grande per due vecchi i cui figli erano tutti sistemati altrove. Vendere una parte dell’immobile avrebbe consentito a Veronica e Paolo Farris di tirare avanti in una parte ristretta di abitazione e giardino. Milo, che aveva sempre vissuto in appartamenti al centro di Cagliari, a quell’epoca combatteva con Lena che intendeva comprare una villetta sulla costa di Quartu, città ormai contigua al capoluogo sardo e destinazione di tutti coloro che non possono permettersi i prezzi cagliaritani. Lei voleva la vista sul mare e per averla era disposta a dissanguarsi con un mutuo capestro. Da via Vittorio Veneto non si vedeva la spiaggia del Poetto né la Sella del Diavolo, ma lo scorcio sul porto, lo Stagno di Santa Gilla e le montagne di Capoterra erano comunque per gli occhi ciò che il miele è per la lingua. Il vecchio Pimentel, che sapeva delle grane del suo giovane associato, gli aveva quindi riferito dell’occasione. La porzione di bifamiliare valeva una cifra inarrivabile per Milo, ma i due vecchi possidenti avevano fretta, difetto che fa calare i prezzi degli immobili in modo sorprendente. Milo aveva offerto il massimo che potesse permettersi fra capitali messi da parte e mutuo acceso per l’occasione. I Farris avevano subito accettato e, anche se il giovane legale si era sentito un ladro, erano stati ben felici di ricevere una proposta in tempi rapidi e, soprattutto, di lasciare parte della propria casa a una coppia di giovani “così a modo”. I quattro si erano fatti quasi amici e fonte di sostegno reciproco per commissioni, sorveglianza alla casa in caso di viaggi, soccorsi notturni dopo malori e acciacchi vari.
Era soprattutto Milo a godere di quella vicinanza, benvoluto dai Farris quanto non lo era neppure dai suoi genitori. Lena era invece più insofferente e alternava periodi di solidarietà e pasticcini inzuppati nel tè a ere geologiche di intolleranza alla loro stessa esistenza. Milo non capiva quelle lunghe fughe dalla compagnia dei suoi anziani amici perché Lena gli aveva sempre nascosto il suo segreto ribrezzo per la terza età. A eccezione dell’adorata nonna paterna, l’unica sopravvissuta alla sua adolescenza ma ormai svanita anche lei nell’indeterminato, i vecchi le avevano sempre provocato repulsione. Non sopportava il loro alito quasi sempre pesante, le dentiere mobili, la pelle sottile e cascante, le vene in rilievo, la gobba e l’andatura claudicante. Entrare in casa Farris per Lena significava essere assalita da un insostenibile odore di corpi avviati al macero, polvere e muffa. Le riusciva sopportabile solo la signora Veronica che, nonostante l’età, aveva una discreta cura di sé e mascherava il sentore di morituro con profumi modaioli. Ma il problema più grave erano i baci che i due avevano sempre voglia di depositarle sulle guance che Lena si puliva poi con il dorso della mano esattamente come faceva da bambina.
La simpatia che gli anziani coniugi provavano per i loro vicini era invece incondizionata e con il tempo era diventata tale che alla fine il giardino non era mai stato diviso permettendo a Lula, la cagna di Lena, di scorrazzare su tutti i 450 metri quadri che circondavano la villa e, cosa per lei più importante, godere delle attenzioni di due famiglie. Quanto a sorvegliare le mura domestiche, quel singolare incrocio fra labrador e pastore corso adottato da Lena era più cane da coccole che da guardia. Abbaiava se un estraneo si avvicinava al cancello d’ingresso, ma bastava farle due moine per vederla dimenare la coda in segno di pace.
Ed era proprio il muso nero di Lula quello che Lena si trovava di fronte ogni mattina quando apriva la finestra:
“Ciao Lulotta bella, come sta la mia pelosona puzzona? Ma quanto sei tenerina, scemina”. Capendo solo il tono affettuoso della voce, il cane non si offendeva per i dolci insulti quotidiani. “Ciao topina ci vediamo dopo”, e Lula trotterellava felice verso uno dei numerosi tappeti sparsi attorno alla casa dove si raggomitolava non prima di avere eseguito tre o quattro giri su se stessa perché la ciambella di cane fosse proprio perfetta.
Salutata Lula, Lena sollevò lo sguardo sullo spettacolo che quella finestra le offriva ogni giorno: a quell’ora il mare era quasi sempre una lastra immobile che si fondeva con lo stagno cui faceva da confine il profilo delle montagne.
“Che schifo di panorama”, scherzavano lei e Milo ogni volta che si trovavano insieme davanti a quella vetrata.
Nel frattempo Milo si era lavato, vestito e calzato. Pure lui si pesava quotidianamente avendo appreso il rito da Mari, come la chiamava. Tutti gli altri avevano adottato come diminutivo la parte finale del nome, solo Milo aveva scelto le due sillabe iniziali. Marilena ci si era dovuta abituare e in principio non le era piaciuto. Ora accettava di essere Mari solo per lui e Lena per il resto del mondo.
Quella mattina la bilancia segnava 75 chili “che su un metro e ottantatré è più che dignitoso”, disse lui a voce alta scimmiottando Lena della quale ben conosceva le manie. Milo riusciva invece a stare davanti allo specchio per radersi, lavarsi e pettinarsi in cinque minuti senza mai vedersi realmente. Il viso liscio a dispetto dei suoi 42 anni, il naso leggermente arcuato, le sopracciglia di nuovo folte perché fuggite alle attenzioni epilatrici di Lena, niente di tutto questo veniva sottoposto ad analisi perché Milo sapeva di non essere un adone ma di non dispiacere affatto al genere femminile. Il che gli bastava e non necessitava di quotidiane valutazioni.
Ancora scalza e saltellante fra i tappeti per evitare il freddo delle mattonelle, Lena tornò in bagno per pettinarsi i capelli che le arrivavano alle spalle lisci e dritti come spaghetti crudi:
Restare castana o schiarire fino al biondo cenere? E perché non mora, nera come la pece. No il nero invecchia, lo dicono tutti. E a Lena l’idea di invecchiare non dispiaceva semplicemente, le faceva orrore. Temeva il decadimento fisico più della morte, da qui i suoi consistenti investimenti in integratori alimentari, creme e massaggi. “Questione di salute”, raccontava agli altri più che a se stessa perché riconosceva la vanità ovunque, soprattutto nei propri panni.
A volte davanti allo specchio si sgomitava un po’ se Milo non aveva ancora finito di sistemare la sua corta chioma che, a dispetto degli anni, era rimasta folta e di quel biondo cenere che Lena ogni tanto provava a immaginare su di sé. Ma quella tonalità sui suoi occhi verdi sarebbe stata troppo banale, pensava, quindi alla fine decideva di restare castana. Milo invece era un uomo mono-colore: biondo dalla testa ai piedi, la sua pelle era ambrata pure in inverno, e i suoi occhi erano di un singolare giallo-ambra. In estate non si abbronzava, semplicemente diventava dorato, come le sue iridi quando venivano colpite dalla luce diretta del sole. Una combinazione che aveva sempre affascinato Lena: Un uomo d’oro, pensava guardandosi bene dal ripetere il commento al destinatario.
I tempi dei due in genere si riconciliavano per la colazione: prepararla era compito di Milo mentre Lena usciva in giardino per il quotidiano obolo di crocchette per Lula.
“Fame brutto cane?” Chiese Lena mentre riempiva la ciotola destinata a vuotarsi nel giro di pochi secondi. L’attesa del cibo era per il cane fonte di incontenibile frenesia: si dimenava sul posto come se avesse avuto il delirio e sbatteva la coda contro qualsiasi oggetto si trovasse nei paraggi del suo posteriore con un risultato sonoro che avrebbe fatto invidia al miglior batterista heavy metal. Il tempo di mettere via il contenitore del mangime e Lula era già pronta per una mini passeggiata nello spiazzo antistante la casa. L’auspicio era che trovasse ispirazione per i suoi bisogni mattutini nel minore tempo possibile. Ma finché non sentiva l’odore giusto, Lula non ne voleva sapere di lasciare il suo contributo sul campo e il rischio era quello di ritrovarselo sul prato al ritorno, cosa che faceva andare Milo su tutte le furie. All’improvviso Lula dette segno di avere trovato un afrore degno delle sue attenzioni: affilò il naso, sbuffò, annusò meglio e poi si accovacciò.
“Brava Lulotta, bravissima la mia cagona”, Lena si sperticava in complimenti per il suo cane dopo ogni esecuzione nei tempi stabiliti. L’abitudine era nata nel periodo in cui era ancora piccola e si cercava di educarla a fare i bisogni fuori dal giardino.
“I cuccioli la fanno solo dove si sentono sicuri” aveva spiegato l’educatore cinofilo, “quindi a casa. Abituarli a venire meno a questo loro istinto richiede pazienza”. Niente punizioni in caso di violazione delle regole, come feci sul tappeto di casa ad esempio. La filosofia del “metodo gentile” era ignorare il comportamento negativo e lodare quello corretto. Sulla prima norma Lena e Milo non erano stati esattamente inappuntabili e la bestiola si era beccata più di una pantofolata, ma per le evacuazioni opportunamente espletate, giù encomi e lodi al merito. Lula non era più cucciola da un pezzo e con i suoi quattro anni ormai era una signora a quattro zampe, ma la consuetudine nata in giovinezza era rimasta.
Dopo soli cinque minuti Lena rientrò in cucina in tempo per trovare il caffellatte caldo e Milo già pronto a inzuppare i suoi biscotti dentro una tazza-lavamano. Lena era più morigerata e la mattina si concedeva il muesli, i frollini erano il premio per il fine settimana se la bilancia era stata magnanima per cinque giorni consecutivi.
“Non senti un retrogusto di bruciacchiato?” Chiese Milo facendo schioccare la lingua sul palato.
“No, il cappuccino mi sembra buono come al solito, anche se mi hai messo il cucchiaino da caffè”, rispose lei affilando gli occhi per accentuare l’aria da vipera.
“Mi perdoni mia principessa sul pisello. Eppure mi sa che è arrivato il momento di fare un po’ di manutenzione alla macchina per il caffè”.
“Se il pisello è il tuo mi nomino principessa e dichiaro te manutentore della dispensatrice di espressi della quale, a parer della mia testa coronata, dovremmo presto disfarci per una meno obsoleta”.
“Ma no, va ancora bene, basta farle fare un giro con l’anticalcare e torna come nuova. Che mania hai di buttare via le cose dopo un po’ che te le vedi attorno, sei una figlia del consumismo sfrenato”.
“Sì e tu ne sei stato adottato ma non lo sai”, disse lei ridendo.
La colazione veniva consumata sul tavolo della cucina davanti a una piccola televisione perché cominciare la giornata con il telegiornale del mattino era considerato dai due un dovere civico, certamente non un piacere. Soprattutto perché spesso le notizie erano in grado di fare andare di traverso il pasto pure a un campione di imperturbabilità, e imperturbabili i due non lo erano per niente. Gli improperi lanciati di volta in volta all’indirizzo di questo o quel presidente, questo o quel partito, sindacato o organizzazione mondiale della truffa legalizzata avrebbero destato la sensibilità anche delle orecchie più disinvolte.
Le loro erano idee tendenzialmente socialdemocratiche, ma il partito che avrebbe dovuto rappresentarle faceva cose che a volte li nauseava. Il fatto poi che quella gente fosse seduta su poltrone ministeriali indirettamente (molto indirettamente visto che l’esecutivo in sella non era emanazione dalle ultime urne) anche grazie al loro voto, a volte li riempiva di indignazione. Spesso Lena pensava che meglio sarebbe stato non saperne più niente e smettere di guardare tg e programmi di approfondimento, ma Milo la convinceva che l’inconsapevolezza sarebbe stata una peggiore condanna.
“La tua ignoranza non farebbe altro che giovare a questa classe dirigente votata alla corruzione. E poi se non ti informi non saprai cosa votare alle prossime elezioni, o vuoi che ti dica io dove mettere la croce come mio padre fa con mia madre?”. Lena sapeva che aveva ragione ma il più delle volte la sera lo lasciava da solo davanti alla tv e si dedicava alle sue letture.
Esauriti gli insulti e prosciugato il cappuccino c’era il tempo per lavarsi i denti, inforcare le chiavi dell’auto e andare a contribuire all’innalzamento del Pil nazionale guadagnandosi il privilegio di pagare le tasse più alte d’Europa, così aveva appena annunciato l’ultimo servizio prima che il telecomando ponesse fine alla litania di cattive novelle.
Lui si dirigeva verso il centralissimo studio legale dove esercitava come avvocato, lei verso la zona industriale cagliaritana dove aveva sede la cooperativa che sette anni prima l’aveva assunta come psicologa mediatrice di conflitti.
Le “Nuvole di carta” offriva servizi di consulenza familiare soprattutto a privati. In genere si trattava di persone che di propria sponte cercavano una mediazione a “desideri e istanze contrapposte”, come recitava il dépliant voluto dal presidente della cooperativa, Fulvio Peddizza. Ma spesso i clienti arrivavano su indicazione di servizi sociali o direttamente del Tribunale di Cagliari che obbligava coppie, parenti e litiganti vari ad andare a “farsi fare la pace” da Lena, come a lei piaceva pensare, piuttosto che scannarsi con il supporto di tre gradi di giudizio.
A suo tempo la neo dottoressa Marilena Salina era rimasta insoddisfatta dai propri studi accademici e aveva cercato di correggere il tiro andando a Roma a fare un master in mediazione famigliare e poi un corso in mediazione dei conflitti. Per un altro anno era rimasta nella Capitale a fare tirocinio presso consultori pubblici poi, a 29 anni, era tornata a Cagliari. In un Paese così litigioso il lavoro non mi mancherà, aveva pensato senza ragionare sul fatto che la pace bisogna volerla e chi litiga, spesso lo fa proprio perché di mediazioni non vuole neanche sentire parlare. Infatti era rimasta disoccupata per un anno dopo gli studi o, meglio, aveva fatto lavori incoerenti con la sua preparazione e, ovviamente, sottopagati e senza contratto.
Quella mattina però la dottoressa Salina non doveva andare alle Nuvole di Carta, non doveva mediare fra i contendenti di nessuna lite, frenare contese verbali fra coniugi, figli e parenti. Aveva un altro appuntamento che la emozionava e allo stesso tempo la rendeva inquieta.

2 L’urlatrice

L’urlo scosse la sala come un colpo di mortaio senza preventiva dichiarazione di guerra. Il suono, emanazione del terrore più puro, fu una “a” lunga almeno tre sconfinati secondi arrotata da una leggera erre che conferiva alla nota, di per sé acutissima, una sfumatura ancora più angosciata. Seppure atteso, il grido fece sussultare i presenti e dopo che la bocca di Lena ebbe smesso di emettere quel fischio di mostro in agonia, le vibrazioni rimasero nell’aria a scuotere quei sensi che gli esseri umani non sanno di avere perché non sono suoni, colori o sapori quelli che percepiscono. Spettinati da un vento che non soffia ma tuona, rimasero a guardarsi l’un l’altro come intontiti e poi, quasi contemporaneamente, si volsero verso la donna la cui bocca aveva osato tanto.
Lena aveva superato se stessa e lo sapeva. Sentiva un leggero bruciore nonostante si fosse ricordata della respirazione diaframmatica e di tenere la gola aperta e protesa verso l’alto per non sforzare troppo le corde vocali. Accostandosi al microfono aveva avuto qualche incertezza, ma ormai la tecnica l’aveva appresa.
“Bella sberla! Nipote urlatrice quest’ultima prodezza ti porterà in saccoccia almeno trecento euro”, disse Melissa Salina, direttrice della Doppiatori riuniti srl, a Lena che aveva appena lasciato la sala d’incisione per raggiungerla alla consolle. Intanto Marino, il tecnico del suono, faceva segno che la registrazione era stata perfetta e non ci sarebbe stato bisogno di ripetere.
“Questo urlo è ottimo per le nuove puntate del serial vampiresco che stiamo doppiando, ma opportunamente mixato può essere riciclato in polizieschi e horror vari”, aggiunse Melissa mentre Lena annuiva bevendo un bicchiere d’acqua.
I rumoristi erano sempre a caccia di “buone urla” e le grida di Lena erano l’ideale. Molti studi di doppiaggio usavano suoni elaborati con sintetizzatori vocali, ma per Melissa erano stridori senz’anima che non potevano spaventare nessuno.
La carriera di urlatrice di Lena era iniziata nella villetta al mare dei suoi genitori l’estate precedente: il 3 di luglio, compleanno di papà Franco. Per l’occasione a Torre delle Stelle, località di villeggiatura a 40 chilometri da Cagliari, erano stati invitati zii e cugini. Melissa, l’unica sorella dei quattro figli avuti dalla nonna paterna di Lena, era da poco rientrata a Cagliari dopo una burrascosa separazione dal marito che aveva lasciato a Roma. Era esattamente la versione maschile del padre di Lena: occhi verdi, capelli castani, ora tinti al contrario del brizzolato fratello che, con i suoi 70 anni, era più grande di lei di nove.
Nella Capitale la zia aveva lasciato pure la società che gestiva con l’ex consorte: i due erano doppiatori da 20 anni. Avevano iniziato entrambi calcando le pedane teatrali e scoprendo presto che i teatranti raramente si arricchiscono, più di frequente sopravvivono. Avevano così cominciato a proporsi come attori-doppiatori tra una tournée e l’altra e con il sopraggiungere dell’età si erano resi conto che preferivano recitare davanti a un microfono che farsi il mazzo su e giù per l’Italia spesso in freddi camerini di anonimi teatri di provincia. Gli spettacoli serali attraevano sempre meno pubblico e, con i tagli che le scuole avevano dovuto subire, non si facevano quadrare più i conti neanche con i matinée per le scolaresche. Il doppiaggio era quindi diventato la loro professione principale e mentre Marco iniziava a prestare la sua calda voce baritonale agli attori statunitensi più noti, Melissa era diventata dialoghista e si era specializzata in direzione del doppiaggio. Con gli anni il matrimonio si era raffreddato, poi raggelato e i due erano diventati più colleghi che coniugi. Così Melissa aveva preso “baracca e burattini” e se ne era tornata a Cagliari dove aveva messo su la Doppiatori riuniti srl. Tutti i colleghi le avevano detto che era una follia, che dalla Sardegna non poteva gestire una società e una scuola di doppiaggio. Ma lei aveva detto che le voci se ne fregano del Tirreno e che dalle coste della Sardegna a quella del Lazio i suoi audio avrebbero corso senza intoppi. E, poesia a parte, c’era sempre il web, le videoconferenze e tutto l’armamentario che le permetteva di “registrare pure nel buco del culo del mondo e inviare file a Roma, Milano o New York”. Quanto alla scuola di doppiaggio, zia Melissa aveva una teoria: i sardi, o per meglio dire i cagliaritani, hanno una terribile cadenza a causa del parlare cantilenato, ma non hanno macroscopici difetti di pronuncia come la “sci” al posto della ci dolce dei romani o l’aspirato al posto della “ci” dura dei toscani, o ancora la “sc” dei sassaresi al posto della esse; tutti difetti difficili da eliminare. La cantilena poteva essere altrettanto fastidiosa, ma Melissa aveva ideato una tecnica che aveva sperimentato innanzi tutto su di sé per correggere il suo terribile accento dei primi tempi a Roma.
Il sistema consisteva nel pensare le parole al contrario prima di pronunciarle, non interamente al contrario ma con le sillabe invertite: casa diventava saca, tempo diventava potem, fastidio tidiofas. In principio si parlava molto lentamente, ma poi ci si faceva l’abitudine e una volta annullata la cantilena si poteva smettere di pensare troppo prima di aprire la bocca. Certo lavorare a Cagliari con i cagliaritani era più dura: era infatti più semplice liberarsi di un accento se non lo si aveva continuamente nelle orecchie. Per questo Melissa stimolava i suoi allievi a partire, stare fuori per lunghi periodi o, in alternativa, a frequentarsi molto fra loro in modo da correggersi a vicenda. E ancora ascoltare spesso radio ed emittenti televisive nazionali o fidanzarsi con “forestieri”. Insomma nel giro di due anni la scuola era decollata, Melissa poteva ora contare su un buon numero di allievi discreti e sentirsi soddisfatta per avere creato un’impresa in un deserto lavorativo come la Sardegna. Inoltre nell’Isola le paghe erano decisamente più basse rispetto a Roma e per un’azienda appena nata era una manna. Pure gli affitti erano più abbordabili e Melissa aveva trovato un locale in viale Trieste, vicino a casa di Milo e Lena, abbastanza grande per contenere due sale di incisione, un’aula per le lezioni e altre tre stanze per gli uffici.
Il giorno del compleanno di papà Franco, pochi minuti prima del taglio della torta, Lena era stata mandata nella cantina a prendere il moscato per accompagnare il dolce. Nell’oscurità nella quale dormivano le bottiglie accuratamente impilate da mamma Iolanda, aveva visto un topo e lo spavento era stato tale da farle emettere un urlo che aveva varcato la soglia del seminterrato, corso per il patio affollato dei Salina in versione conviviale cui aveva sollevato la peluria della schiena, scavalcato siepi e varie specie arboree per giungere fino alla spiaggia.
“È il topo. Questo è urlo da topo”, aveva sentenziato Franco che conosceva bene sua figlia e le variazioni sul tema “grida per lo spavento”.
“Santo cielo, Lena mi farà venire un colpo prima o poi”, aveva detto Iolanda correndole incontro.
Ma lei era già riapparsa tutta trafelata.
“Non è niente, mi sono spaventata”.
“Avevo ragione, era un lurido roditore?” Chiese Franco.
“Ma piccolo”, rispose lei mostrando pochi centimetri fra le dita.
“In effetti hai emesso la versione da sorcio di campagna, con un ratto staresti ancora urlando e non saresti arrivata qui così impavida con la bottiglia in mano”.
Lena si schernì sorridendo. Tutta la tavolata rideva tranne Melissa che guardava la nipote con occhi da rapace notturno.
“E ti capita spesso di emettere questi acuti?” Chiese infine la zia.
“Come no!”, rispose il padre per lei. “La bambina ha lo strillo facile, sai gli spaventi che ci ha fatto prendere?”
“È che quando prendo paura non so trattenermi e mi scappa l’urlo prima che mi riesca di ragionare”.
“Sai quante volte mi è capitato di tornare a casa e spaventarla senza averne intenzione? Caccia fuori degli strepiti che prima o poi mi romperà pure i doppi vetri delle finestre”, aggiunse Milo.
“E poi dopo che grido ti spaventi tu più di me”, disse Lena ridendo.
“Ci puoi contare che mi terrorizzo dopo che ti sento strillare così. Poco fa hai gelato il sangue nelle vene di tutti alla vista del tuo topino”.
“Scusate ma proprio non riesco a resistere”.
“Non ti scusare cara” intervenne la zia, “anzi ti dirò che è proprio quello che mi ci vorrebbe per un film di cui sto organizzando il doppiaggio in questi giorni. Ho una scena di accoltellamento di una giovane pulzella e il suono che ho appena sentito sarebbe perfetto.”
“Non so se sono in grado di ripeterlo a comando. Non ci ho mai provato, le grida mi vengono fuori quando mi spavento”.
“Se è per questo vado a catturare il topo così te lo ripropongo in sala di incisione”.
“Mi sa che ci sta pensando Lula”, che in effetti era stata la prima ad accorrere in soccorso della sua padrona e stava ancora perlustrando la cantina muso a terra.
“I ragni ti fanno lo stesso effetto?”
“No, le blatte”. Milo confermò con la mimica mentre mandava giù un boccone di torta e Iolanda gli riempiva il bicchiere del moscato appena stappato.
“Sì, ma le blatte fanno schifo pure a me. Te ne compro una finta che sembra vera e te la piazzo nella schiena quando meno te lo aspetti”.
“Zia ti prego”.
“Non pregarmi che sei atea, come me e quasi tutto il resto della famiglia fortunatamente. Bene fratello, brindiamo alle urla di mia nipote e a babbo e mamma, pace all’anima loro, che da bravi socialisti avevano capito tutto e ci hanno mandati a catechismo proprio perché imparassimo a diffidare dei preti. Auguri Franco”.
I calici furono levati e fu così che Lena iniziò a urlare davanti a un microfono, cosa che, in pochi mesi, le procurò tante soddisfazioni economiche quante non gliene aveva concesso il suo lavoro di consulente familiare. Inoltre iniziò a seguire i corsi di dizione e recitazione della zia con la prospettiva di diventare lei stessa doppiatrice quando si fosse estinta la sua pazienza per la mediazione di piccole guerre quotidiane.

3 Senza tango

La registrazione dell’urlo aveva preso in tutto un’oretta, a Lena restò quindi buona parte della mattinata per andare alle Nuvole di carta a sbrigare qualche scartoffia burocratica. Per quel giovedì non c’erano appuntamenti quindi se la poteva prendere comoda. Lasciò l’edificio in viale Trieste e si mise in marcia verso la statale 195 dove, nella zona industriale di Macchiareddu, c’era la sede della cooperativa. Alle 10 il traffico era già nevrastenico nel viale alberato, uno dei più antichi della città. Lena accese l’autoradio e si preparò a una lunga fila. Tra un semaforo e l’altro diede una controllata al maquillage: ripassò la cipria sui punti lucidi del viso, ravvivò il rossetto mangiucchiato ai lati delle labbra e si spazzolò i capelli. Da un’insenatura sul cruscotto afferrò un pacchetto di gomme da masticare e se ne infilò una in bocca. Lo shock delle papille gustative violentate dall’eucaliptolo le ricordò che si era trattato di una scelta di ripiego in assenza delle gomme con il suo gusto preferito – menta e liquirizia – dal banco del market dove faceva la spesa. Inghiottì due volte, sputò la poltiglia gommosa sul tagliando di un parcheggio di tre giorni prima e infine si attaccò al tasto delle radio-frequenze.
“Questa è troppo lagna, questa troppo metallica, questa potrebbe andare ma vediamo se c’è di meglio”. Lena aveva sempre voglia di cantare mentre guidava, meglio se a squarciagola e quindi saltava da una stazione all’altra in cerca della canzone giusta. Era il suo modo di sfogare la tensione e di esercitare l’emissione vocale profonda come le aveva insegnato zia Melissa. Per meglio essere pervasa dalla musica Lena teneva il volume al massimo e, a seconda della canzone, si agitava sul sedile per seguirne il ritmo. Le piaceva che, fra i bassi emessi dalle casse e gli acuti della sua voce, le vibrazioni la scuotessero fino alle ossa provocandole un’ebrezza che spesso la portava a esercitare una pressione proibita sul pedale dell’acceleratore. Ma per il momento niente velocità, la sua auto procedeva più lenta di un ottuagenario in libera uscita.
“Ma guarda questo, supera a destra e poi pensa di fregarmi rientrando in corsia. E secondo te io sto qui per diletto. Col cacchio che ti faccio passare se non mi fai nemmeno la freccia”. Nel chiuso dell’abitacolo Lena parlava da sola e si concedeva commenti che lei stessa avrebbe censurato in pubblico.
“Ecco bravo aspetta di lato. E quest’altro? Vabbè mette la freccia, almeno questo è educato, anzi educata. Sì ti faccio passare. Ecco vedi, ringrazia. Ciao cara vai pure. Che bella cosa quando l’umanità si scambia gentilezze, ti rimette in pace col mondo”.
L’attenzione tornò sul tasto dispensatore di suoni graditi o sgraditi e finalmente si fermò su un tango dei Gotan project. Una musica brutal le fece tornare alla mente l’appuntamento previsto per la serata all’Academia tanguera, la palestra-milonga dove la danza argentina era recentemente rientrata nella sua vita dopo una pausa di sei anni.
Lena aveva sempre adorato il tango e appena se lo era potuto permettere si era iscritta alla scuola di Graciela Camìn, un’argentina di 48 anni trapiantata in Sardegna ormai da venti che aveva sposato un suo allievo isolano, Francesco Usàla di nove anni più giovane. Lena aveva frequentato con soddisfazione la scuola per tre anni arrivando a un buon livello. Il fatto di non avere un cavaliere fisso in principio era stato penoso perché si era dovuta adattare a ballare sempre con uomini “scompagnati”. Ma essendo con il tempo diventata una brava ballerina la cosa si era rivelata un vantaggio e i migliori tangueri della scuola avevano cominciato a contendersela.
Tutto era finito quando aveva conosciuto Milo, lui non ne voleva sapere del tango e all’epoca lei era troppo innamorata perché la rinuncia le potesse pesare. In realtà non si era accorta di avere smesso finché non erano passati dei mesi. Aveva iniziato a saltare qualche appuntamento per uscire con Milo più spesso, poi le lezioni perse si erano accumulate fino a che l’iscrizione non era più stata rinnovata.
A ripensarci adesso, con quel ritmo nelle orecchie, non si capacitava di come avesse potuto mollare: il tango era per lei più di una danza, era l’espressione più naturale di quello struggimento esistenziale che si portava appresso da una vita. Quel misto di malinconia e batticuore che non ha un nome ma può avere un suono. “Senza nome non lo puoi chiamare, ma se suona lo puoi ballare”, diceva Graciela quando spiegava quello che chiamava il sentimento del tango.
Come aveva potuto allontanarsi da tutto questo? Come aveva fatto a dimenticare il pianto sensuale del bandoneon, come aveva fatto a restare senza tango? E la domanda si mutò presto in un’altra:
“Perché mi sono lasciata cambiare tanto dal rapporto con Milo?”.
Al principio della loro relazione aveva dovuto faticare per convincerlo di non essere in cerca di distrazioni estemporanee. Usciva da una fase nella quale non c’era stato un uomo stabile nella sua vita per lungo tempo: i fidanzati si erano susseguiti senza soluzione di continuità e spesso si erano accavallati. Insomma agli occhi di uno come Milo, che era “tanto un bravo ragazzo” e non andava in cerca di amanti, Lena era apparsa come una mina vagante: eccessivamente sensuale, disinvolta e carnale. E poi con troppe amicizie maschili, troppi appuntamenti, troppe feste e sicuramente troppo tango. Per lui aveva finito per dire molti “no” e più di qualcuno lo aveva detto a se stessa. Non si era pentita perché ne era valsa la pena: Milo era una persona rara, lo dimostrava il fatto che la relazione fosse durata e che da tre anni stessero cercando di avere un figlio.
Archiviate le incertezze dei primi tempi, il pericolo tango poteva quindi rientrare nella sua vita e così, tre mesi prima, Lena era riuscita a convincere Milo a iscriversi con lei a uno dei corsi per principianti della sua vecchia scuola. Graciela l’aveva sgridata per il suo precedente abbandono ma era stata felice di riaverla sulla sua pedana.
Per Lena fu però una pena ricominciare: Milo aveva scarsa attitudine a qualsiasi tipo di ballo e le lezioni erano state esasperanti. Le sembrava di ballare con uno zoppo: in lui non c’era ritmo né passione. Certo, tutti i principianti sono poco passionali ma lui sembrava non avere sangue nelle vene: faceva tutto in contro tempo, le pestava i piedi, non rispettava le figure e non le indicava i movimenti al momento giusto. In un ballo in cui l’uomo decide e la donna segue, Milo faceva pochi progressi e Lena era frustrata anche se si sforzava di non darlo a vedere. Capiva che lui le dedicava quei due giorni alla settimana solo per accontentarla, ma l’alternativa era rinunciare di nuovo al tango, sacrificio per il quale non era più disponibile, oppure ballare con qualcun altro, sacrificio al quale non era disposto Milo. Pensava al momento in cui avrebbero finalmente ballato come a un traguardo che avrebbero forse raggiunto nel secolo a venire. Graciela si era accorta della sua pena e spesso le faceva fare “un giro” fra le braccia di suo marito in qualità di vice istruttore per sgranchirla un po’. In quei momenti Lena si sentiva come una Ferrari che, dopo essere rimasta impantanata nel traffico per ore, finalmente arriva in autostrada e può liberare i cavalli che ha nel motore.
Pensando di poter trarre vantaggio da quella frustrazione, proprio una settimana prima Graciela aveva fatto a Lena una proposta che lei non aveva potuto né voluto rifiutare: partecipare allo spettacolo che la scuola aveva organizzato per il primo maggio con un ballerino rimasto di recente senza compagna a causa di un incidente. Le prove erano iniziate da un mese e Graciela si trovava nell’incombenza di dovere sostituire la metà di una delle coppie fondamentali della sua coreografia. Non era un semplice saggio di danza come quelli che si fanno a fine corso: era l’esibizione degli allievi migliori dell’Academia tanguera in uno dei teatri più frequentati della città. Graciela ci teneva molto e aveva subito pensato a Lena più per la sua presenza scenica che per la sua danza, che andava ancora sgrezzata dagli anni di inattività. Ma ciò che di buono Lena aveva nel ballo era una discreta percezione dei voleri del ballerino. Quindi le aveva chiesto di sostituire l’infortunata offrendole in cambio lezioni gratis da fare con il tanguero scompagnato e le prove per lo spettacolo.
Il ballerino in questione era uno dei più richiesti e contesi delle milonghe cagliaritane: “Bello, bravo con i piedi e non solo, ricco e, soprattutto, single”. Così era stato descritto da Francesco, pettegolo e desideroso di mostrare a Lena quale fortuna le fosse toccata.
“A me basta che sia bravo, tutte le altre qualità non possono che complicarmi la vita con la gelosia di Milo”, aveva confessato lei all’istruttore che sapeva bene quanto il tango potesse essere paraninfo da una parte, e scavare solchi di incomprensione fra coppie dall’altra.
Quando riferì dell’offerta di Graciela, Lena tacque ovviamente le parti più scomode e condì la prospettiva di partecipare a uno spettacolo di tango con tanto entusiasmo che il povero Milo, pur riluttante, non ebbe il coraggio di opporsi. Dichiarò quindi che la cosa non lo avrebbe infastidito non senza riflettere sui risvolti vantaggiosi, primo fra tutti quello di potersi progressivamente svincolare da un impegno che decisamente non lo appassionava.
Graciela aveva organizzato il primo incontro fra Lena e il suo futuro cavaliere proprio per quella sera e, con il sottofondo musicale dei Gotan project, Lena iniziò a fantasticare sul suo prossimo compagno di danze. Dopo una presentazione come quella fatta da Francesco, era certa che ne sarebbe rimasta delusa: “È sempre così quando si fa troppa pubblicità. E se è davvero tanto bello, bravo e chi più ne ha più ne metta, per la legge del contrappasso come minimo è uno psicopatico, oppure puzza e usa i congiuntivi al contrario”.
Una musica brutal finì e le casse dell’autoradio iniziarono a diffondere invece una musica brutale. Lena si attaccò di nuovo al tasto selezionatore: voleva un altro tango, “Accidenti non avere più i cd nel cruscotto”, ma da quando aveva cambiato auto, tre mesi prima, non aveva ancora pensato a una degna selezione musicale per i suoi viaggi. L’etere digitale non propose niente di interessante e lei spense la radio. Non voleva perdere quell’atmosfera e conservarla fino all’appuntamento serale.
Finalmente l’auto riuscì a lasciarsi alle spalle il traffico e a entrare nella statale che andava verso lo stagno di Santa Gilla, quello che Lena vedeva dalle finestre di casa sua. La zona industriale era sorta disordinatamente fra il Porto Canale, lo stagno e il mare. Per chilometri si potevano vedere, su entrambi i lati della strada, edifici, capannoni, torri e ciminiere alternati a voli di fenicotteri e Cavalieri d’Italia in ammaraggio salmastro. Era una delle tante contraddizioni nelle quali Cagliari era maestra. E infatti, nonostante Lena avesse appena superato il cartello stradale che indicava l’ingresso per Macchiareddu e per una delle fabbriche più inquinanti della zona, la strada si mostrava circondata da campi che esibivano un’orgia di colori e odori primaverili. Il profumo di mimosa e ginestra entrava prepotentemente dalle bocchette di areazione annullando gli effetti dell’alberello alla vaniglia appeso allo specchietto retrovisore. Era tutta la natura che voleva vincere sullo squallore dei ruderi industriali gettati a terra a caso e, tra fiori di colza e papaveri, sembrava che tutto il giallo e tutto il rosso del mondo fossero corsi sulle cunette per un improvviso raduno cromatico sul quale, come frammenti di specchio precipitati, si infilavano pozze di stagno con riflessi di cielo.
Entrando in ufficio Lena salutò, nell’ordine, il segretario Mariano che stava dietro al bancone dell’ingresso, Giovanna, una collega psicologa specializzata nei conflitti in azienda, il suo capo, Fulvio Peddizza, e la direttrice del personale, Luisa Argiolas. Era stata lei ad assumerla sette anni prima ed era stata lei a sostenerla durante tutto il periodo in cui era durata la causa legale relativa al caso Mangoni, al contrario di Peddizza che l’aveva gentilmente invitata a rivolgersi al legale della cooperativa senza cercare in lui l’aiuto che non sapeva né voleva darle.
L’avvocato era un certo Milo Di Caro: fu proprio lui a difenderla nella causa contro Silvio Mangoni, un uomo che, anche grazie alle perizie fornite da Lena al tribunale di Cagliari, era stato allontanato dalla famiglia per la quale era diventato una minaccia. Lena era convinta che si trattasse di uno di quei rari casi in cui lo Stato funziona e si riesce a cacciare il violento prima che stermini il parentado. Non era stato facile dimostrare l’opportunità di allontanarlo da casa ed è per questo che in genere le istituzioni arrivano a cadaveri freddi. La signora Mangoni invece, temendo per i figli più che per se stessa, aveva denunciato il marito dopo i primi due ceffoni. All’uomo era stato intimato di cercarsi alloggio altrove ed erano stati sguinzagliati psicologi e servizi sociali. Per sei mesi Mangoni aveva cercato di convincere Lena di essere cambiato, ma lei aveva continuato a vedere in lui il livore e l’odio di chi pensa alla famiglia come a cosa propria. Gli aveva detto in faccia che il suo responso sarebbe stato negativo e lui l’aveva assalita. Fortunatamente c’era una scrivania di mezzo e Lena aveva fatto in tempo ad afferrare il suo tagliacarte d’argento e infilarglielo in gola. La lama non era granché e quindi il danno non era stato grave, ma il taglio c’era e così, mentre Lena aveva sporto querela per aggressione e minacce, lui lo aveva fatto per tentato omicidio. L’accusa era poi stata derubricata a lesioni personali vista la scarsa capacità offensiva dell’arma: uno di quei regali di laurea che Lena aveva sempre considerato inutili finché non aveva visto le pupille dilatate del signor Mangoni a distanza ravvicinata.
Il giorno dopo l’incidente, Lena era andata a trovare Bianca, la zia ottantenne che le aveva regalato il set da scrivania in argento: le aveva comprato una torta al cioccolato come quelle che portava sempre a sua nonna – sorella maggiore di Bianca – quando era in vita e l’aveva ringraziata per il regalo come non aveva fatto 11 anni prima. L’anziana era ormai un po’ svampita e non aveva capito granché ma la torta l’aveva gustata. Lena aveva avuto voglia di piangere fra le braccia della zia, ma non aveva voluto spaventarla. Se ne era quindi andata presto all’appuntamento con il legale. Era entrata nello studio di Milo con in bocca il sapore del cioccolato e negli occhi le lacrime che avrebbero voluto uscire a casa di zia Bianca.
L’avvocato l’aveva fatta accomodare sulla poltrona di fronte alla sua scrivania, aveva finto di non essere impressionato dalla sua presenza e l’aveva invitata a raccontare l’accaduto. Lena aveva capito subito di avere sbagliato a non sfogarsi con la zia, infatti era scoppiata a piangere prima ancora di arrivare alle minacce di Mangoni. In compenso Milo era andato nel panico: incerto tra il prendere la giovane piangente fra le braccia, e il mostrare una professionalità che sarebbe comunque andata a farsi benedire – se lo sentiva – si era messo a cercare dei fazzolettini di carta fra i vari cassetti e, quando alla fine li aveva tirati fuori lei dalla sua borsa, era rimasto a guardarla affascinato e intontito.
Lei si era scusata – “Bella figura per una psicologa”, aveva detto – e per recuperare equilibrio dopo il pianto aveva freddamente elencato gli insulti che l’uomo aveva gridato prima di scagliarsi contro di lei.
“‘Brutta troia ti ammazzo, io ti scanno come una scrofa e poi ti do in pasto al cane’, e mentre urlava queste parole mi si è avventato contro. Io stavo giocherellando col tagliacarte perché, dico la verità, non che mi aspettassi esattamente un’aggressione ma… diciamo che mi fidavo poco. Così quando mi sono trovata la sua faccia a pochi centimetri dalla mia gliel’ho conficcato in gola”.
Accidenti, la signorina è arrivata in lacrime ma 24 ore fa ha steso un uomo che pesa almeno 40 chili in più di lei, aveva pensato Milo rimanendo impressionato per la seconda o terza volta.
“Allora, questo fatto che lei si aspettasse l’aggressione ha fatto bene a dirmelo, perché a me deve dire tutto, ma quando sarà davanti al giudice se lo dimentica. E facciamo che si dimentica pure del fatto che stesse giocherellando con l’arma”.
“Ma quale arma? Il tagliacarte d’argento di zia Bianca?” Aveva chiesto Lena tirando su con il naso gli ultimi rivoli dei dotti lacrimali.
“L’arma la fa la mano che la usa, nessuna cosa di per sé è pericolosa. Lei ha usato il regalo della zia per difesa e quella è diventata un’arma”.
Milo si sforzava di restare sull’argomento, ma aveva sempre più voglia di abbracciare Lena. Aveva addirittura sperato che ricominciasse a piangere per poterla consolare. Lei però aveva chiuso le condotte emotive ed era stata professionale per tutto il resto del colloquio. Milo si era rimproverato l’occasione mancata fino all’appuntamento successivo. Poi aveva iniziato a conoscere meglio Lena e ne era rimasto terrorizzato: era attratto da lei e per meglio tutelarla, diceva, aveva voluto conoscere risvolti della sua vita che lo avevano reso molto diffidente. In ogni caso l’aveva difesa bene e alla fine Lena aveva vinto la causa: quella contro l’accusa di lesioni e quella contro la sfiducia di Milo. Prima che lei fosse assolta e il signor Mangoni condannato, avvocato e assistita erano già fidanzati. La relazione era stata ovviamente tenuta segreta fino al giudizio e Lena ricordava quel periodo clandestino come un incubo fatto di sotterfugi e finzione. Le pareva di essere l’amante reietta di un marito che non era neanche sposato.
Quella mattina, dopo un orrido caffè preso al distributore automatico del corridoio della cooperativa e condiviso con Luisa, Mariano e Giovanna, Lena era stata costretta a rivangare la vicenda dal documento che teneva fra le mani: le motivazioni della sentenza d’appello di condanna di Mangoni che erano arrivate con la posta del mattino. La speranza era che la difesa di quell’uomo non ricorresse in Cassazione, Lena aveva proprio voglia di gettarsi alle spalle quella storia.
Teneva ancora il plico in mano perché avrebbe dovuto riferirne gli estremi al suo capo, ma con Peddizza cercava di ridurre al minimo i contatti verbali, con soddisfazione di entrambi. Lena aveva sentito da subito di indisporre l’uomo e sapeva bene il perché. Il peddizzone2, come segretamente lo chiamava lei, era stato messo alla presidenza di quella cooperativa che prendeva una barca di finanziamenti pubblici da un politico molto noto a Cagliari. Inutile dire che secondo Lena non era all’altezza del ruolo, opinione che non era mai riuscita a nascondergli.
Del Peddizza non si sapeva che titolo di studio superiore possedesse e neanche se ne avesse uno. Lena non aveva pregiudizi sull’argomento, si può avere degna cultura indipendentemente dalle scuole fatte, ma questo decisamente non era il caso. Per quanto il presidente avesse decenti capacità manageriali, era così ignorante che quando parlava i congiuntivi facevano il doppio carpiato al contrario prima di suicidarsi nel mare sgrammaticato della sua sintassi creativa. Lena rimaneva spesso tramortita dal suo lessico e doveva fare sforzi immani per non ridergli in faccia. Nel segreto della sua scrivania compilava poi diligentemente uno stupidario di strafalcioni presidenziali che la sera proponeva a Milo finalmente libera di ridere fino a strozzarsi.
Ai “che d’è, se d’ero e se d’eri”, non faceva neanche più caso, agli “scendimi quel fascicolo dalla mensola” le scappava giusto una mezza risata, ma il massimo era stato il giorno in cui lo aveva sentito rivolgersi così al segretario Mariano che cercava di infilare un blocco di fogli nuovo nella stampante:
“Aspetta che te lo entro io”. Era scappata in bagno, aveva tirato lo sciacquone dell’acqua e si era sganasciata dalle risate a piacimento.
La cosa più grave era che all’interno della cooperativa, Peddizza non era l’unico amico degli amici a ricoprire un incarico per il quale era palesemente inadeguato, cosa che rendeva la struttura inefficiente come tutti quegli strani ibridi dell’economia italiana che sarebbero privati ma svolgono funzioni pubbliche e, soprattutto, campano dei rimborsi di mamma Regione. Lena si rendeva conto come Le Nuvole di carta non fossero che lo specchio dell’intera situazione isolana e nazionale per la quale la responsabilità non era certamente solo della classe politica. Finché ci sarà chi si giova di favori senza meriti, il Paese rimarrà la periferia di mondo che merita di essere, pensava Lena.
Alla fine decise di scrivere una breve e-mail nella quale sintetizzò gli estremi della sentenza Mangoni e la inviò a Peddizza nonostante la sua stanza distasse solo qualche metro dalla propria. Era però certa che la sua scelta sarebbe stata apprezzata.
La pausa per il pranzo fu consumata nella sala riunioni fra tramezzini e insalate condivise tra colleghi, assistenti e tirocinanti (come poteva una qualsiasi cooperativa sociale sopravvivere senza sfruttare l’opera di quattro o cinque neo laureati a costo zero?). Dopo ulteriore velenoso caffè, Lena si rituffò fra le pratiche smaltendo l’arretrato burocratico di una settimana. Quando tirò su lo sguardo dallo schermo del suo computer, dalla finestra si diffondevano i colori dell’imbrunire.
Ora di andare, così mi vedo il tramonto dietro le montagne blu, pensò Lena spegnendo tutti i dispositivi elettronici sulla scrivania. Il massiccio del monte Arcosu che si ergeva di fronte al mare diventava proprio blu quando il sole si abbassava tanto da avviarsi al nascondiglio dietro le cime.
Ma il bello deve ancora venire, pensò Lena mentre usciva dal parcheggio per tornare a casa. La strada che seguiva il profilo della costa si svolgeva quasi interamente perpendicolare alla linea dell’orizzonte sulla quale la città sembrava sdraiata. A quell’ora Cagliari era quasi tutta rosa perché i riflessi del crepuscolo macchiavano le antiche mura e gli edifici più chiari. Il cielo stesso era roseo e il mare non poteva fare a meno di rifletterne il barlume.
Per questo, a prescindere dalla stagione, Lena cercava di uscire dall’ufficio al tramonto anche se significava lavorare di più con le giornate lunghe. La cosa si adattava bene ai ritmi della cooperativa il cui lavoro aumentava proprio in estate: il caldo dà alla testa e i casi estivi erano sempre più numerosi di quelli invernali.
Al rientro, Lula le mostrò il solito affetto: salti sul posto, coda a elica e guaiti di commozione come se fosse passato un mese e non mezza giornata dal loro ultimo incontro.
“Ciao topastra. Sì, adesso andiamo a fare un giretto”. Afferrò il guinzaglio e concesse a Lula una versione abbreviata della consueta passeggiata quotidiana.
Dopo mezz’ora Lena rientrò a casa e ci fu il tempo per uno spuntino terminato ingoiando un antidolorifico per lenire la pesantezza al bassoventre: i primi due giorni del ciclo mestruale la facevano sempre patire. Poi si concesse una doccia veloce: alle 21 sarebbe iniziata la lezione di tango, ma Graciela le aveva chiesto di arrivare prima per introdurla al suo nuovo ballerino. Milo era già andato alla sua partita di calcetto settimanale e poi avrebbe approfittato dell’assenza di Lena per concedersi una pizza con i compagni di squadra.
Lei si preparò fingendo con se stessa di non mettere più cura del solito nella scelta davanti al guardaroba. La mise tanguera era quasi una divisa: gonna sopra il ginocchio, svasata o aderente con spacco per lasciare le gambe libere di vagare negli adorni e la maglia doveva essere leggera visto che dopo un’ora di ballo spesso si sudava.
O meglio: ti suda addosso il tuo ballerino, pensava Lena riflettendo su quanto uomini e donne abbiano metabolismi differenti. Ogni volta che si trovava intrisa in un umido abbraccio, Lena provava un indicibile ribrezzo e per questo lei e Milo spesso rifiutavano i cambi di coppia anche se Graciela invitava costantemente i ballerini agli scambi per imparare meglio.
“Altrimenti vi abituate alla marca del vostro uomo e poi non riuscite a ballare con nessun altro”, diceva alle donne forte dei suoi anni di esperienza. “E poi un po’ di pepe a volte fa bene alle coppie”, precisava raccogliendo tutta la disapprovazione di Francesco, geloso come pochi mariti.
Lena uscì dalla cabina armadio con un top blu-notte sul quale mise poi una maglia dello stesso colore (adorati twin-set). Fra le gonne scelse un tubino nero al ginocchio (tanto ormai il binomio nero-blu è sdoganato) con la cerniera che correva sulla coscia destra per tutta la lunghezza in modo che si potesse scegliere la profondità dello spacco. Inutile dire che al ritorno a casa la cerniera sarebbe stata abbassata fino all’orlo della gonna perché Milo avrebbe sicuramente controllato con quali abiti fosse andata in giro senza di lui. Durante il tango invece la base dello spacco sarebbe inevitabilmente salita in modo da lasciarle libertà di movimento. Per il momento Lena assestò la fibbia della lampo a una decina di centimetri dal ginocchio facendo attenzione a non sfilare i collant neri contenitivi che le strizzavano i fianchi convincendoli a dimostrare meno centimetri.
Per trucco e piega restava poco tempo e quindi niente piastra sui capelli che tanto erano lisci e dritti come al solito, niente eyeliner perché ci voleva troppa perizia e Lena era già nervosa. La matita blu petrolio fu passata sui bordi delle palpebre a tempo di record e il mascara coronò gli occhi verdi di Lena che si fecero più felini.
“Miaoooorrrfffhhh”, si disse Lena allo specchio facendosi le boccacce dopo avere passato il rossetto di appena una tonalità più scuro delle proprie labbra.
“Se dai troppa visibilità alla bocca con un colore vivace priverai i tuoi occhi delle giuste attenzioni”, le aveva svelato la visagista del centro benessere dove Lena si concedeva periodiche sedute anticellulite. Ultima corsa fu alla cabina armadio per uscirne con un cappottino nero al ginocchio e via.
La borsa stava all’ingresso, non c’era il tempo di spostare tutto il piccolo universo che vi albergava in una pochette da sera: sarebbe uscita con il borsone da mattina. La scarpiera stava vicino all’ingresso perché per Lena era una mania quella di togliersi le scarpe appena arrivati a casa. Ne estrasse un paio di stivali neri con il tacco alto e il sacchetto con le scarpe da tango che avrebbe indossato solo una volta arrivata sulla pedana della palestra. Prima di uscire frugò fra i suoi vecchi cd anche se era in ritardo ed estrasse dalle fauci di un contenitore in plexiglass una raccolta di tango da tenere in auto.
Quando Lula la vide uscire con i tacchi e il cappottino capì che non era aria di serata con cane a seguito e si ritirò in buon ordine. Lena la salutò, le accese la luce sul giardino e le riempì la ciotola in modo che non avesse a soffrire troppo nel guardarla uscire.
“Fermi tutti”, non si era spruzzata il profumo da sera. Pazienza, sarebbe ricorsa a quello che teneva nella borsa, era più dozzinale ma la partenza da casa era già fuori tempo massimo.
La scuola di tango non era distante da via Vittorio Veneto, infatti Lena e Milo si godevano quasi sempre la passeggiata di venti minuti tra le vie del quartiere Stampace fino all’ingresso nel colle di Castello, il più antico nucleo della città dentro le fortificazioni pisane del XIII secolo. Ma per andare a piedi era troppo tardi, con i tacchi poi non se ne parlava. Lena prese l’auto pregando di trovare un parcheggio vicino a via dei Genovesi: un terno o magari una quaterna al lotto sarebbero stati più probabili. La preghiera atea di Lena infatti non fu ascoltata, come tutte le preghiere, e la sua auto dovette arrivare fino al parcheggio di via del Cammino nuovo, sotto le mura di cinta. Aprì la portiera mentre le casse ancora diffondevano nell’abitacolo La Revancha del Tango. Opportuna colonna sonora per questo momento, pensò Lena affrontando la salita per l’ingresso al Castello.

4 Il primo abbraccio

Lena arrivò all’Academia tanguera a soli cinque minuti dalle 21, entrò nel vestibolo che dava sulla grande sala con il fiatone per la corsa fatta in salita e mentre si avvicinava al guardaroba si impose un contegno che la mostrasse meno emozionata di quanto non fosse.
“Sei quasi più in ritardo del tuo solito ritardo Lenita”, fu rimproverata con accento argentino e un bacio di benvenuto mentre si toglieva il cappotto e lo appendeva a una gruccia.
“Scusa Graciela, speravo di arrivare prima, ma…”, prese fiato per abituarsi al vago sentore di muffa che aleggiava nell’ambiente, destino comune a tutti i seminterrati di quel quartiere che non aveva mai vinto l’eterna battaglia con l’umidità di risalita.
“Ora abbiamo poco tempo prima che inizi la lezione”, la interruppe la maestra. “Libero ti puoi avvicinare a questa bella muchacha arrivata così tardi”, rincarò la dose Graciela, e per ulteriore rimprovero assestò un pizzicotto su un fianco di Lena mentre la guidava verso il bordo della pista dal quale un uomo alto e snello si era allontanato per venire loro incontro. Era molto elegante, pure per una serata di tango, ma aveva già tolto la giacca. Indossava dei pantaloni grigi in fresco di lana e una camicia di cotone grigio-perla. Da taglio e tessuti era evidente che si trattasse di abbigliamento che la maggior parte dei presenti non poteva permettersi. I capelli erano corti sul collo ma sul resto del capo si notava un composto ondulato scuro e leggermente brizzolato. I lineamenti del volto erano regolari, nessun eccesso nel naso o nelle labbra che pure erano carnose. Il suo sarebbe stato un viso armonioso ma quasi anonimo se non fosse stato per le sopracciglia scure e folte che erano una naturale ala di gabbiano e che conferivano al tutto un carattere più virile.
Graciela diede un’occhiata all’orologio mentre Lena finiva di passare ai raggi X l’intera figura che si avvicinava: solo gli occhi le rimasero indefinibili nella scarsa luce delle lampade a parete, non ne capì il colore neanche dopo che le si parò di fronte.
“Fate così: presentatevi da soli mentre vado a predisporre tutto per la lezione”.
Le mani si tesero mentre a Lena tornava il fiatone anche se la salita era ormai lontana dai suoi polmoni.
“Marilena Salina”.
“Libero Preso”.
Lena sgranò gli occhi: “Sei un ossimoro”.
Lui rise mentre ancora le stringeva la mano e la fissava incuriosito.
“I miei avevano un singolare senso dell’umorismo. Diciamo che Preso era dato, visto che è il cognome paterno, ma per mia madre era troppo pesante su un bambino e così per equilibrare scelse un nome col significato opposto”.
“Bella sintesi”, giudicò Lena allentando la presa della mano che lui continuava a stringere. “E sei più Preso o più Libero?”.
“Sono più libero di lasciarmi prendere quando voglio”, rispose lui schiudendo finalmente le dita e pensando che la serata si faceva interessante. “E tu sei davvero incapace di essere dolce?”.
Lena rise a sua volta pensando a quante volte l’avevano chiamata salata o anche insalata a scuola.

“Sono arrivata con le migliori intenzioni ma mi sembra presto per gli zuccherini”.
“E poi scommetto che ti viene meglio essere sapida”, la incalzò lui mentre si abbottonava un polsino che aveva avuto l’ardire di allentarsi quando si era sfilato la giacca.
“Meno male che non hai detto acida”.
“Non mi permetterei mai, o meglio, non ancora”.
Lena sentì che la conversazione si era scaldata troppo presto e cercò di riportarla ai fondamentali che di solito seguono le presentazioni.
“Sei un tanguero forestiero. Preso non mi sembra cognome isolano”. La genealogia è sempre un buon rifugio, pensò Lena ravviandosi i capelli che non avevano bisogno di essere ordinati.
“Infatti, è di origine pugliese anche se io sono nato in Toscana, figlio di una lombarda e di un ligure, e ho vissuto ovunque fuorché in Puglia. Neanche tu sembri sarda però”. I polsini erano tutti abbottonati e all’improvviso gli sembrò di avere troppe mani. Senza sapere che farne le infilò nelle tasche.
“Invece lo sono, cagliaritana figlia e nipote di cagliaritani”. Aprì e chiuse la cinghietta dell’orologio due volte di seguito.
“E dove hai perso l’accento?” Lo sapeva bene cosa voleva fare con le mani. Lo sguardo corse al polso di Lena dal quale proveniva un ticchettio nervoso. Sperò che rompesse la cerniera in metallo per poterla aiutare e così sfiorarle l’intreccio viola sotto la pelle bianca.

“Studio dizione. Mia zia Melissa, che tiene il corso, sarà felicissima di questo incontro. Dice che per perdere il cantilenato tipico della zona devo frequentare chi parla senza inflessioni dialettali”. Lena rimpianse di non avere tasche anche lei e incrociò le braccia simulando una disinvoltura alla quale Libero non credette.
“Obbedisci alla zia allora. In effetti ho cambiato troppe città per assimilare una cadenza. E come mai studi dizione, fai l’attrice?”
“Mi piacerebbe lasciartelo credere”.
Il dialogo fu interrotto da un battimano di Graciela che richiamava i suoi allievi all’ordine. Lena e Libero si diressero verso il bordo della pista dove le panche erano già affollate di ballerini. Si sedettero anche loro per togliersi le calzature che portavano ai piedi e sostituirle con quelle adatte alla pedana di legno che copriva il pavimento di tutto il locale.

Porca miseria, è più bello di quanto mi aspettassi, e ora cosa dico a Milo? Pensò lei mentre le note del primo tango cominciavano a scaldare la sala.
Lena non credeva ai colpi di fulmine ma se ci avesse mai prestato fede, questa ne avrebbe sicuramente tratto conferme dagli eventi. Un colpo di certo lo aveva ricevuto perché, mentre Libero si presentava, aveva avuto la netta sensazione di sporgersi sull’oscurità di quello sguardo senza avere alcuna voglia di proteggersi dalla caduta incombente. E poi era certa di avere fatto alla controparte lo stesso effetto, visto che non le staccava gli occhi di dosso neanche per allacciarsi le scarpe.
Nemmeno Libero era un sostenitore degli innamoramenti a prima vista, ma credeva nelle sberle, quelle che ogni tanto la vita assesta riaccendendo all’improvviso l’attenzione mentre si era annoiati e con il pilota automatico. Ecco: Lena in pochi minuti costrinse Libero alla guida manuale, una sensazione che non provava da tempo.
Mentre lei si sfilava gli stivali e calzava i décolleté, Libero non poté fare a meno di restare rapito dall’immagine dei suoi piedi. Dopo avere allacciato le fibbie delle scarpe, lei tirò su la cerniera della gonna di qualche centimetro e in quel momento lui decise che avrebbe fatto di tutto per fare salire ancora quello spacco.
“Graciela ti ha detto che ho ripreso a ballare da poco? In principio sarò un po’ impacciata forse”.
“Non ti devi preoccupare Marilena”.
“Libero non mi sembra nome suscettibile di diminutivi, ne hai mai avuti?” Chiese lei sollevandosi dalla panca e lisciando i bordi della gonna sui fianchi.
“No, mi hanno sempre chiamato Libero, tutto intero”, rispose lui stringendo l’ultimo fiocco e tornando eretto di fronte a lei.
“Certo un nome così non lo si può storpiare sottraendogli sillabe”. Di guardarlo ancora negli occhi non se ne parlava, Lena volse lo sguardo in cerca di salvezza e la trovò in un quasi sconosciuto da salutare con un sorriso, cosa che destò nell’altro una piacevole sorpresa subito tradita da un’altra fuga verso Libero e le sue domande.
“Sbaglio o non ti piacciono i diminutivi?” Si spostò su un lato chiudendole la visuale sul resto della sala.
“Non sbagli: per qualcuno sono Mari, ma per la maggior parte Lena”. Arresa, non restava che lui. Gli scoprì due piccole rughe da quarantenne fra le sopracciglia.

“Nessuno ti chiama col tuo nome completo?” Fare un altro passo? No, troppo presto per braccarla.
“Lo faceva solo mia nonna materna, ma non ho più nonni”.
“Allora avrò il piacere di essere l’unico a chiamarti Marilena. Non avrò fretta quando dirò il tuo nome e mi prenderò il tempo di pronunciarlo con tutte le sillabe”.
Colpita e affondata. Io di questo mi innamoro in dieci minuti se continua così, pensò Lena mentre lui la invitava a guadagnare il centro della pista dove le altre coppie avevano già iniziato a ballare. Lei guardò il suo palmo disteso, accolse l’invito e lo seguì. Graciela si avvicinò loro con l’aria di chi sapeva di avere fatto da paraninfo e godendoci parecchio. Milo non le era mai piaciuto.
“I primi dieci minuti sono di riscaldamento come al solito, usateli per conoscervi meglio e comprendere l’uno il movimento dell’altra. Lena se hai incertezze, relajo e lascia fare a Libero che la sa più lunga di te”.
Lena annuì notando che lui si era di nuovo impossessato della sua mano e che quella stretta si era fatta più salda mentre Graciela parlava. Per un attimo guardò la scena riflessa in uno degli specchi che coprivano le pareti della pista e non poté fare a meno di notare che non le sembrava affatto strano vedersi tenuta per mano a un uomo che non fosse Milo.
“Iniziate con un po’ di marcaciòn: Lena poggia le dita sul petto di Libero e senti i suoi movimenti. Appena sei pronta partite e buona lezione”.
Mentre la maestra si avviava verso un’altra coppia, Libero si portò al petto la mano sinistra di Lena che ancora teneva nella sua, poi le prese la destra e la posò a fianco all’altra. Lena assistette a quei movimenti come fosse stata un automa, ma quel nuovo contatto fisico la riscosse e le fece scappare un sospiro che lui accolse come un risarcimento per i brividi che aveva addosso da quando le aveva guardato i piedi.
È bella come un’equazione risolta dopo ore di cifre in battaglia. Come l’intuizione improvvisa del risultato, pensò Libero che aveva mente matematica e una forte inclinazione per l’armonia di forme, suoni, colori e soprattutto numeri. Aveva sempre guardato al calcolo puro con un senso estetico e alle formule algebriche come massima espressione di bellezza. Per lui i testi di fisica erano vera poesia e la formulazione matematica delle leggi che regolano l’universo conosciuto gli procurava più godimento di qualsiasi romanzo. Considerava quella di Lena una grazia armonica e anche per questo ne era affascinato.
Iniziò l’esercizio della marcaciòn spostando il peso del corpo da un piede all’altro. Lena faceva altrettanto cercando ancora di non guardarlo negli occhi.
Santo cielo sono già cotta, pensò sentendo che il contatto con i pettorali di Libero le stava provocando uno shock termico e che avrebbe iniziato a sudare prima del previsto.
Lui osservava in silenzio il vagare dello sguardo di lei: volo d’insetto che prima o poi dovrà posarsi da qualche parte anche se non vorrebbe farlo proprio sul miele.

“E come si è fatta male la tua ballerina? Quella che io devo cercare di sostituire degnamente?”
“L’ho uccisa io quando ho saputo chi le avrebbe dato il cambio”.
No, no. Così andiamo malissimo, pensò Lena senza avere il coraggio di proferire risposta ma limitandosi a sorridere. Libero invece se la godeva un mondo anche se aveva il profetico sentore che avrebbe pagato con gli interessi le conseguenze di quel frettoloso corteggiamento.
“Mi sembra che tu segua bene i miei cambi di peso, vogliamo provare a fare sul serio?” Libero la invitò fra le sue braccia spalancandole come ante della porta di casa. Lena entrò nell’abbraccio con un carico di emozione che era certa di non saper dissimulare. Prima del contatto fisico avvertì il suo profumo: un misto di bagnoschiuma muschiato, deodorante, sapone per biancheria emesso dalla camicia impeccabilmente stirata e un profumo il cui nome doveva essere di sicuro qualcosa come “seducila in 5 minuti” o “morte alla fedeltà di coppia”.
La mano destra di Lena si congiunse alla sinistra di Libero mentre con l’altra lui le cingeva la schiena fino ad avvicinarsi al seno destro. Lei gli posò la sua sinistra sulla spalla destra ma lui le spostò il gomito in modo che l’abbraccio fosse completo. Così la strinse a sé e per lei fu l’ingresso in uno spazio denso, caldo, profumato, accogliente come può essere solo un posto dove si sia attesi. Per un attimo fu come entrare nell’acqua tiepida, poi ricordò che avrebbe dovuto sentire freddo ed estraneità, e che quelle altre sensazioni le erano proibite perché a casa c’era un uomo che l’aspettava e suo era il diritto di farle provare quelle emozioni.
Libero iniziò a muoversi e Lena seguì, finalmente ballarono.
“Scusa ti ho pestato un piede, mi devo abituare alla tua guida”.
“Non ti scusare, è normale. Stiamo prendendo l’uno le misure dell’altra”.
“Ti hanno detto che è da molto che non ballo?”
“Me lo hai detto tu poco fa”.
“Cioè ero arrivata a un livello decente sei anni fa ma poi… Francesco dice però che seguo bene e…”
“Questo è quello che conta, tanto guido io. Sono io che devo farti capire dove andare, se non lo capisci è colpa mia”.

Lena gli fu grata di quell’assunzione di responsabilità, ma sapeva che i suoi piedi non stavano dando il meglio e non a causa della ruggine degli anni sui tacchi.
Questo è un disastro, mi sento regredire all’adolescenza delle tachicardie e dei sudori freddi, realizzò Lena cercando salvezza nell’ironia.
“Sai che Francesco ti ha descritto come l’uomo perfetto? Il tanguero più conteso dalle donne della scuola, forse della città, che dico della città, almeno del Continente”.
“La serata è iniziata bene. Scendi pure in particolari”.
“Bravo ballerino manco a dirlo, bello, alto, simpatico, elegante e pure ricco”.
Libero rise soddisfatto mentre sentiva che i loro piedi si scioglievano e c’erano meno singhiozzi nell’andatura anche se stavano provando solo le figure fondamentali come la salida basica: una sequenza di cinque passi che disegna un quadrato e finisce con la donna che incrocia il piede sinistro sul destro.
“E tu trovi che abbia ragione?”
“A parte la disponibilità economica, che mi è impossibile valutare per il momento, pare abbiano fatto una descrizione puntuale. Cosa che mi inquieta parecchio”, rispose Lena ritrovando disinvoltura nei movimenti.
“E perché mai?” Chiese Libero introducendo una variante sui loro passi.
“Con tanti pregi… come minimo devi essere un serial killer”. Lei lo seguì senza neanche accorgersene.
“Ma non mi hanno ancora catturato perché sono anche furbissimo”.
“Ecco, in effetti alla descrizione dell’uomo perfetto sarebbe mancata solo l’intelligenza, per quanto mi renda conto che sia difficile farne mostra in una milonga”.
Lena si fermò interdetta. “Qui ti ho marcato un ocho indietro”, l’aiutò lui facendola indietreggiare e guidandola poi in rotazione sul suo asse e sulla punta del suo piede destro. “E tu credi che io possa essere dotato pure di materia grigia o no?”.
“Se sotto questa bella camicia hai pure la tartaruga, a che ti servono i neuroni?” Ripose lei con più malizia negli occhi che nella voce.
“Finché non scoprirai i miei addominali mi concedi almeno il beneficio del dubbio?” Indugiò su un cambio di peso per darle il tempo di fare un adorno. Lena capì e fece compiere alla sua gamba destra uno svolazzo accolto da Libero con una smorfia compiaciuta.
“Mi sa che gli addominali devono essere mollicci perché le sinapsi mi sembrano tutte attive”, rispose ancora lei guardandosi le gambe nel riflesso dello specchio: due sconosciute.
“Ho superato il test di ingresso quindi?” Libero si fermò di colpo per evitare che una coppia li investisse durante un giro. La sala era troppo piccola per i 24 presenti.
“Non vorrai altri complimenti al nostro primo incontro spero?”
“Certo che li voglio: bello, alto, simpatico, elegante, pure intelligente. E non ho ancora scoperto i muscoli”.
“In effetti è insolito trovare tante qualità insieme, ma se le possiedo io non vedo perché non dovrebbero trovarsi pure in una versione maschile della sottoscritta”.
“Immagino a te manchi solo la modestia”.
“Quella la dimentico sempre a casa”.
“Devi averne a pacchi, tutti interi e ancora sigillati”.
“In effetti me ne hanno regalato delle scorte da piccola, ma crescendo ho notato che le confezioni sono così carine che non oso più disfarle. Ogni tanto ne regalo a chi crede di averne bisogno”. Le era tornata la memoria tanguera e si muoveva dimentica di sé.
“Che animo generoso”. Lena sbagliò una sacada e rise d’imbarazzo mentre Libero pensava fra sé:
Questa donna è pericolosissima, non me la lascerò sfuggire, e gli venne in mente il ritornello di una canzone orecchiabile che aveva sentito all’autoradio proprio mentre andava a lezione: “It’s dangerous, I wanna do it again3”. Il tango era diventato all’improvviso un’attività interessantissima, da non perdere una lezione neanche morto.
“Ora ti faccio riprovare la stessa sacada, ma devi cercare di sollevare di più la tua gamba quando io invado il tuo spazio con la mia”.
“Non posso se non… aspetta un attimo”, Lena si sciolse dall’abbracciò e tirò su leggermente la cerniera della gonna. Libero la guardò con l’espressione di chi ha vinto al bingo della settimana, ma Lena lo sorprese sollevando lo sguardo prima di avere finito di armeggiare con la lampo.
“Lo hai fatto di proposito?”
“Non me lo farai confessare neanche sotto tortura”.
“E va bene, visto che mi sto spogliando…”, Lena si sfilò la maglia che ormai la stava facendo sudare e la posò sulla sbarra da danza che correva lungo l’unico muro senza specchi. A Libero si ingrandirono gli occhi.
“E mister perfezione che lavoro fa? Questo non me lo hanno detto”, disse Lena tornando sul tema dei convenevoli mentre rientrava tra le braccia di Libero.
“Sono un ingegnere informatico. Non ti dico la mia qualifica perché è una sequela di stupidi termini in inglese che più o meno significano che progetto software”.
“Oh dai ti prego, mi diverte da morire sentire elenchi di altisonanti titoli e mansioni in inglese”.
“Ebbene hai di fronte a te il chief technology officer, ma anche data analyst o, secondo le ultime tendenze del settore, data scientist della Manudigital spa”.
“Ah che bello, è così ridicolo. Ok non ti chiederò di aiutarmi col computer quando avrò problemi nel cambiare la password. Ho letto da qualche parte che esigere supporto da un ingegnere informatico per queste inezie è come chiedere a un architetto di stuccare una crepa sul muro”.
“Che donna sensibile e intelligente. Invece di te non mi è stato detto nulla, sto scoprendo tutto adesso. A dire il vero Graciela mi ha detto solo una cosa: ‘Mi devi un favore’”.
Lena sorrise e pensò che l’argentina non aveva fatto un favore a nessuno, soprattutto non lo aveva fatto a Milo.
“E tu non sei curioso?”
“Non chiedo mai informazioni, soprattutto sul lavoro e soprattutto a una donna che mi è simpatica”.
“Hai paura di restare deluso? Dimmi la verità: temi ti dica che faccio la cassiera in un ipermercato”.

“Che hai contro le cassiere?”
“E va bene mi scuso con la categoria per il mio classismo”.
“È che ho iniziato la mia carriera proprio dietro una cassa di supermercato”.
“Pure io. Ma guarda abbiamo già trovato un’esperienza in comune. E come ho continuato secondo te?”.
Graciela interruppe tutti dando inizio alla lezione vera e propria. Con l’aiuto di Francesco spiegò quale sarebbe stato l’esercizio da ripetere nei successivi minuti, sequenza che rappresentava anche una delle figure della coreografia che andava costruendo per lo spettacolo del primo di maggio.
Lena era affascinata dai movimenti della coppia di istruttori. Graciela era alta circa 155 centimetri e aveva un sedere di quasi altrettanti. Il baricentro trovava forse compensazione in un seno che, a confronto, avrebbe fatto annoverare Giunone fra le più piatte dell’Olimpo. A vederla fuori da una milonga nessuno le avrebbe dato una vecchia lira, ma sulla pedana era una dea. Fra le braccia del marito, o di chiunque altro, quell’anonima cicciottella mostrava una grazia e una sensuale femminilità che nessuna bellona da passerella si era mai sognata. Graciela era ammiratissima da uomini e donne e questo spiegava, in parte, la feroce gelosia della quale soffriva il tanguero consorte.
Per un attimo Lena osservò Libero, rare volte aveva visto un uomo così concentrato mentre lei, persa nella contemplazione del contesto, non aveva registrato nessuna informazione.

“Non ci ho capito nulla, arrivati a quest’ora i neuroni scioperano e i dendriti si accomodano sul divano”, confessò sospirando.
“Meglio così, tanto devi seguire me. È sufficiente che sia io a capire”.
“Secoli di emancipazione femminile per sentirmi dire questa frase, mia nonna si starà rivoltando nella tomba”.
“Era una suffragetta?” Chiese Libero mentre muoveva i primi passi e Lena seguiva. Il principio dell’esercizio era semplice ma si complicava dopo il secondo giro consecutivo. Lena tacque fino al termine della figura.
“No, socialista. Una delle prime a essersi scritta all’Unione donne italiane. Rischiò l’olio di ricino più di una volta durante il fascismo”.
Libero ebbe paura che si finisse per parlare di politica e decise di tornare all’argomento precedente mentre Graciela e Francesco mostravano di nuovo l’esercizio a beneficio di chi non aveva compreso prima.
“Quanto al lavoro, spero proprio che tu non sia una psicologa”.
“Accidenti, eppure ho tolto la divisa”, Lena si sorprese notando pure che Libero non aveva sbagliato un passo e aveva afferrato l’intera sequenza al primo colpo.
“Perdonami ma non mi piace la categoria, vi appartengono alcune delle donne più confuse dell’emisfero”.
“Condivido purtroppo. Per questo mi pento e mi dolgo del titolo di dottore della psiche e non lo uso mai”.
“E fai bene a pentirti”, disse Libero strattonandola leggermente perché faticava a sollevare la gamba destra su un gancio, una sorta di frustata che la donna produce piegando di scatto il ginocchio in opposizione alla gamba dell’uomo.
“Certo che non fai troppi sforzi per riuscire simpatico eh?”
“Al primo incontro punto tutto sull’aspetto fisico”, le sibilò Libero a un orecchio facendole l’occhiolino subito dopo.
“E dopo il primo?”
“A te scoprirlo, non voglio rovinarti la sorpresa”, affermò bloccandola di colpo su una parada e fissandola negli occhi all’improvviso. Poi le fece scavalcare il piede che l’aveva costretta a fermarsi e continuò: “E che psicologa sei? Dimmi che non sei di quelle che ti stendono sul lettino ad ascoltare i fatti tuoi facendo finta che le importi”.
“In realtà mi occupo di mediazione dei conflitti. Ma sai una cosa? Il motivo per cui non ho mai aperto uno studio come ha fatto mia sorella, che infatti è molto più ricca di me, è che mi sono resa conto per tempo che di ascoltare i problemi altrui non mi importa affatto”.

“Dalla nonna femminista è nata una genia di psicologhe quindi. Ma tu sei colei che fa fare pace a chi si vuol fare la guerra: che nobile occupazione!”.
Graciela e Francesco osservavano le coppie sulla pista una per volta e finalmente giunsero a Libero e Lena che ripeterono la sequenza a beneficio dei maestri.
“No non ci siamo Lena, troppo ‘su e giù’ sulle ginocchia. Devi cercare di mantenere la stessa altezza e poi dimeni troppo questo sedere neanche lo avessi grosso come il mio. Stiamo ballando tango non salsa”. Si sostituì a lei fra le braccia di Libero e le fece vedere come si balla davvero. “Libero va bene, ma qui… aspetta. Qui devi arrotondare di più la presa, lasciarmi più spazio altrimenti non riesco a completare il giro stando sul mio asse e ti frano addosso. E credimi, non è una bella esperienza raccogliere quasi 65 chili di Graciela”.
Lena e Libero ripresero a ballare cercando di applicare i consigli ricevuti, ma arrivavano a un punto in cui Lena aveva sempre difficoltà.
“Cosa sbaglio?”
“Il piede. Devi sollevare il destro non il sinistro”.
“E perché non me lo hai detto subito?”
“Perché non mi piace fare il saccente, ma se mi chiedi rispondo”.
“Rara qualità quella di chi parla solo se interrogato, e solo se conosce la risposta. Ma tu non ne sbagli una? Voglio dire: la sequenza è lunga e tu l’hai azzeccata al primo colpo”.
“Ho un’ottima memoria fotografica e le sequenze sono il mio ambiente naturale”.
Lena annuì sospettosa ma alla fine sollevò il piede giusto e la figura filò liscia fino alla chiusura. Per il resto della lezione parlarono poco e ballarono meglio. Graciela tornò un paio di volte a correggere l’abbraccio e la posizione del braccio sinistro di Lena sulla spalla di Libero.
“Ma non lo vuoi abbracciare questo bell’uomo? Non sai quante donne ti stanno invidiando in questa sala? Ecco brava un po’ di passione, nel tango c’è sensualità. Su quel palco il primo maggio mi dovrai tirare fuori uno sguardo e un’energia che faccia venire al pubblico voglia di sedurti. Lui già ti spoglia con gli occhi”, disse indicando Libero che all’improvviso tossì arrossendo mentre il viso di Lena era purpureo già da un pezzo. Graciela rise dimostrando di godersi un mondo l’imbarazzo di quei due. Poi si allontanò e li guardò da lontano ripetere l’ultimo esercizio: a fine lezione avevano trovato una buona armonia.

Le danze ebbero termine alle dieci e un quarto e l’appuntamento fu confermato per il martedì successivo. Francesco si avvicinò a Lena e le fece i complimenti.
“Lo sai che Graciela è una maestra molto esigente ma sei stata brava. A te Libero non devo dire niente perché altrimenti mi rubi il posto e mi tocca accoltellarti”. Risero tutti e tre mentre li raggiungeva Graciela.
“Mi siete piaciuti insieme, avevo visto bene nell’accoppiarvi però vi dico subito che sarebbe bene che voi due vi vedeste anche oltre l’orario di lezione. Avete un buon passo ma tu muchacha hai bisogno di molto esercizio”.

“E con Milo come faccio?” Protestò Lena, come se avesse ricordato all’improvviso di avere un fidanzato.
“E tu lascialo abbaiare”, disse Graciela andando a spegnere lo stereo e riportando quelle mura al silenzio che le privava di qualsiasi magia. Già, incantesimo finito: bisognava togliere le scarpine di cristallo e, dopo avere ballato con il principe azzurro, rimettersi gli stivali delle sette leghe e correre a casa dall’orco pantofolato. …

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1 commento su “Tango in campo minato, le prime 40 pagine

  • Ciao Claudia, mi chiamo Claudia Pascalis. Oggi sbirciando sulla home di Tiscali mi ha incuriosito in particolar modo il tuo articolo; sono sempre interessata a tutte le nuove opere di artisti e autori sardi. Così ho letto queste prime 40 pagine che mi hanno rapita davvero!!! Ti faccio i miei migliori complimenti!! Vorrei proporti di presentare il tuo nuovo libro nella sala del Museo Is Bangius (sito presso la stessa frazione del Comune di Marrubiu) gestito dall’associazione di volontari della quale faccio parte; puoi dare uno sguardo alla pagina Facebook del museo “Cultura Arte Marrubiu” dove troverai tutte le foto degli eventi che organizziamo all’interno del museo. Il prossimo 28 ottobre stiamo organizzando un evento contro il femminicidio; sarebbe molto interessante che tu partecipassi. Qualora fossi interessata o semplicemente avessi dei chiarimenti da chiedermi scrivimi a Pascalis86@tiscali.it.
    Ti ringrazio in anticipo.
    Cordiali saluti.

    Claudia Pascalis

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